TESTI
PRESENTAZIONI, RECENSIONI O CITAZIONI:
Ferdinando Albertazzi,Gian Carlo Angeleri, Francesco G. Barca,
Marc Bonneval, Giorgio Brizio, Daniela Brusa,
Umberto Capra,Elvira Cassa Salvi, Claudio Cerrato,
Sabatino Cersosimo, Paride Chiapatti,Franz Clemente,
Eugenio Comencini, Tiziana Conti, Giuseppe Cordoni,
Mauro Corradini,Lia Cucconi, Giuseppina De Maria,
Angelo Dragone, Mario De Micheli, Giorgio Di Genova,
Marida Faussone, Alessandra Ferrante, P.Fornaciari,
Albino Galvano, Morena Ghilardi, Cristina Giudice, Paolo Levi,
Claudio Lo Cascio, Mario Lunetta, Giorgio Luzzi,
Pino Mantovani, Teodosio Martucci, Renzo Melotti,
Angelo Mistrangelo, Gianni Milano, Ivana Mulatero,
Aurelio Natali, Paolo Nesta, Gigi Padovani,Monica Perosino,Mauro Papa
Franco Poli, Roberto Rossi Precerutti, Francesco Prestipino,
Luca Ragagnin, Vittoria Lapi Righetti, Maria Teresa Roli,
Franca Romè, Giorgio Seveso, Roberto Tassi,
Renato Valerio, Bepi Zancan
Certo non è facile scrivere per tuo fratello. Nell'ambiente dell'arte,
così come è diventato da qualche tempo, circola oggi infatti più
pregiudizio che obiettività, e non è semplice né agevole esprimere il
senso delle proprie convinzioni, le ragioni delle proprie scelte con la
certezza di essere correttamente compresi. Difatti ho provato quasi
un senso d'imbarazzo di fronte all'invito di commentare (me,critico
d'arte) le opere preparate per questa mostra da Marco, che è pittore
con tutto ciò che di serietà, preparazione, professionismo e
sensibilità questo termine comporta. Perchè, subito, mi sono apparsi
evidenti i rischi di interpretazione riduttiva di un gesto come questo, le malignità possibili,
i sorrisi furbi di chi nella situazione dell'arte contemporanea vede appunto soltanto
furbizia, calcolo, malafede.
Ma poi, ecco, l'imbarazzo è svanito come neve al sole. Ho riflettuto al fatto che una
testimonianza in catalogo è (o dovrebbe essere) soprattutto l'attestazione di un rapporto
compiuto, di un circuito che si è chiuso, per l'occasione,
tra lo scrittore e l'artista, e il cui "campo" si manifesta
nel far diversamente crepitare -per un attimo - le
immagini in mostra, di modo che gli spettatori vengano
in qualche maniera introdotti non solo al rapporto con
quelle ma pure ne avvertano subitamente la sostanza
poetica, il particolare spessore di verità individuale che
le ha modellate.
E se una presentazione è soprattutto questo, allora
nessuno meglio di me - potrei dire sorridendo - è
davvero abilitato a scrivere di Marco, cioè di un uomo
che agli altri può talvolta apparire cordiale, generoso di
sé e tuttavia come ermeticamente geloso del proprio
intimo nucleo umano, difficilmente raggiungibile in
quelle sue assorte pieghe profonde le cui inquietudini
giungono appena ad increspare la superficie: uomo,
invece, che io so fino in fondo per lunga storia comune,
per esperienze e inseminazioni reciproche, per mutuo
conoscimento accumulato in anni (ormai, ahinoi, già un
po' lontani) di infanzia curiosa e di fervida adolescenza
trascorse assieme in stretta comunione. Che conosco,
insomma, completamente come completamente, se davvero è possibile, conosco me
stesso.
Queste sue immagini vengono proprio da lì, da quelle regioni interiori dell'animo percorse
da una lenta decantazione di speranza e di angoscia e in cui, per usare una frase oggi un
po' consumata, l'ottimismo della volontà s'impara e talvolta anche soccombe al
pessimismo della ragione.Non
è
solo, come si usa dire, un ritorno al "privato" che,del
resto, non ha mai abbandonato la sua né la pittura di altri:
è
piuttosto un intenso,
trepidante sguardo interiore, un'intima consapevolezza delle contraddizioni inaudite tra le
quali oggi ci muoviamo; il sentimento forte, insormontabile, della preziosa fragilità di quel
grumo di calore e di chiarezza che abbiamo dentro, da difendere e da nutrire. Torna in
mente un antico verso di Rimbaud: "La réalité étan trop épineuse pour mon grand
caractère ... tout se fit ombre et acquarium ardent". La musica, i giochi, i dolci volti di
persone care si distendono pacatamente nella composizione, immersi tuttavia in una luce
acida d'ombre e di colori contrastanti, in una atmosfera liquida e come urticante che ne
contraddice la quiete felpata. Percorso da una sorta di trattenuto espressionismo, il segno
è sempre sodo e pieno, gonfio di linfe allusive e sotterranee che vibrano in una singola,
significativa emulsione d'asprezza e di languore.
È
proprio qui, in questa controllata e meditata scansione espressiva
dalle calibratissime deformazioni e accentuazioni morfologiche, che vive il
semplice ma suggestivo segreto di questa pittura, la sua immediata persuasività poetica.
Perché la sua storia, le sue ragioni, sono proprio quelle di un'opera che guarda intorno e
dentro di sé con tagli acuti e sensibili, che sinceramente e senza letteratura, senza
infingimenti, testimonia sul filo pungente del traslato poetico e di una diffusa tensione
metaforica le circostanze dolenti ma anche affilate e di speranza di un clima esistenziale
complessivo. Come un canto polare dalle radici coltissime, insieme sanguigno e raffinato,
le opere di Marco ci parlano, dunque, dell'inesaurita vitalità dell'immagine nel suo rapporto
con gli affetti, le emozioni, le inquietudini dell'uomo. Lo fanno con limpida sincerità, con
disarmante partecipazione, ricche - come io so che sono - d'esperienza intensamente
vissuta e generosamente spesa a comprendere e interpretare gli snodi,le luci e le ombre
dell' animo umano e del mondo non facile nel quale viviamo. Quando eravamo bambini
curiosamente era proprio lui lo scrittore di famiglia mentre io, invece, mi arrangiavo a
diseqnare. Scriveva versi gentili e malinconici, straordinari - mi sembra ora - per una
sensibilità infantile. Ed è certamente anche quella precoce sensibilità, oggi matura e
sonora, che nella pittura lo ha reso poeta così acuto e robusto, così umanamente
convincente.
Giorgio Seveso
Presentazione della mostra alla Galleria Davico, Torino
1982
GIORGIO LUZZI
congetture su Marco Seveso
Un ircocranio verniciato nelle tre fasce del tricolore campeggia
nella parte alta del dipinto, sostenuto dalle braccia alzate ad
anello di una giovane donna nuda dagli occhi vuoti e dalla pelle
singolarmente delicata e sensuosa. Alla sinistra di chi guarda,
da un triangolo, spiano le palpebre pesanti del Vecchio
decrepito e barbuto: sapiente, filosofo antico, forse Dio stesso,
vegliardo comunque nel suo essere simbolo del tempo, gloria
della durata, ago del giudizio. Buonarroti viene talvolta
rappresentato così. Giù per il corpo della ragazza, mentre la
sua sensualità impassibile viene progressivamente aggredita
da una enigmatica tabe,
incominciano ad
accumularsi strani conglomerati meccanici, cascami di
tecnologia, relitti gravitazionali di ogni sorta, ombre e
scotòmi, azzardi di geometrie senza finalità, accenni a
una razionalità perduta. Il quadro, certamente uno dei
più importanti di questa mostra, è stato esposto in
questo aprile 2009 a una rassegna collettiva ideata
dalla Regione Piemonte per onorare adeguatamente
l’anniversario ricorrente della Resistenza; il lavoro di
Marco vi si trova allineato con quelli di una pattuglia
illustre e scelta di artisti piemontesi che sono, al pari di
lui, ormai ampiamente storicizzati.
Credo che non sia un caso che la sua adesione al
tema storico-celebrativo si sia orientata in
questa
direzione così poco prevedibile, e tutto sommato
enigmatica. Ma enigmatica fino a un certo punto,
se si rileva che il modello sottostante, il
palinsesto forse inconscio di questa opera, è il
celebre quadro esposto al Louvre, dal titolo La
libertà che guida il popolo, di Delacroix. Mi
piacerebbe che qualcuno mettesse a confronto i due lavori e che ne deducesse
alcune inevitabili conclusioni: a me sembra inequivocabile che questo riferimento
esista. Se poi non è stato voluto intenzionalmente, il caso diventa ancora più
stimolante: l'allestimento complessivo, la donna seminuda con la bandiera in
mano che domina lo spazio plastico, la rovina di corpi che gravitano verso il basso,
persino la sagoma barbuta che si fa luce sulla sinistra, le linee di forza
geometriche che nell'artista francese sono rappresentate dai segmenti dei fucili, e
che nel nostro artista sono linee spezzate, spigoli e punte, tiranti geometrici a
propria volta già compromessi dall'impero del caos. In questo modo egli gioca con
misurata spregiudicatezza ai confini di un Pop allusivamente ironizzato, così come
gioca di rimandi con elementi delle tradizioni più o meno prossime.
Ancora più in profondità ci viene rivelato che domina in questi lavori una forma
costante di insidia sul Bello: sul Bello grava sempre una pioggia di attentati, una
condizione di integrità minacciata, un postumano dirompente e nemmeno tanto
occultato che va a deviare dentro il campo della metamorfosi. Il panorama
generale di queste composizioni è di tipo metamorfico, e q
uesto è uno dei fatti
dominanti: la trasformazione non è nulla di per sé se non viene ricondotta al rapporto tra
oggetto di partenza e oggetto di arrivo, se cioè non si cerca di indagare sulle condizioni che
presiedono al processo di trasformazione. Nel nostro caso essa si dirige lungo l’asse che va
dal biologico al tecnologico. Se il Vecchio è il sapiente, peraltro sempre più parcellizzato e
periferico, egli si muove come elemento regolatore di natura archetipica: ordinatore estetico?
scrutatore impassibile e forse ironico? semplice memoria di una saggezza ordinatrice e
distributiva che peraltro non c’è mai stata nella storia? In realtà, sotto il Vecchio che osserva
si consumano gli effetti della esplosione vista come condizione permanente dell’essere
comunitario. Dall’esplosione fino a quelle fascine di ossami che rappresentano l’eterno ciclo
dell’andirivieni tra organico e inorganico, e avanti fino a una forma di rimineralizzazione del
corpo, di tecnologizzazione della Physis come condizione di un ordine coatto con un suo
Tutore supremo nascosto (ma non sempre), invisibile (ma non sempre), insidioso fino al
punto da essere sovraesposto. Marco ci descrive, né più né meno, le allegorie del dominio.
Tout simplement, usiamo definirlo potere.
Certo il degustatore di psichi potrà pensare agevolmente al corpo smembrato come fase
lacaniana della vicenda del soggetto, come mimesi schizoide, fase precedente la presa di
possesso di sé come forma sociale dell'autocoscienza. Tutto questo è qui, dipinto in
modo
lampante. Basta leggerlo. C’è una fase, nel percorso di appropriazione dell’io che
ciascuno di noi deve effettuare, nella quale il corpo individuale compare come una
sorta di puzzle, un organismo in pezzi che devono poi essere riorganizzati, disciplinati,
direzionati, affinché il soggetto possa compiere il suo cauto ingresso dentro l'ordine
sociale. Artisti, poeti, filosofi si sono avventurati dentro questa temibile fase della
socializzazione dell'io, prelevandone le schegge di travaglio, i momenti differenziali
della identità dolorosa e indisciplinata. Ma qui, ora che siamo adulti e ragionevolmente
(ma anche un po' irragionevolmente, vista una certa carenza di utopia) "politici",
potremmo muoverci sul piano, sempre prepotentemente proiettato in avanti, del
desiderio. Traduco. Le carcasse umane, le carcasse meccaniche e tecnologiche, residui
della Polis, della città degli amori e dei furori, sono dotate di una forma di
intercambiabilità: il corpo tecnologizzato, al limite destinatario di un eccesso di
perfezione, viene negato da una strana censura interna e contemporaneamente viene
caricato di una forte virtualità onirica. In questo senso i nudi femminili non sono altro
che citazioni, segnali, tracce: lì, come a uno spillo, si appuntano i desideri e i desideri
stessi, come da uno spillo malfermo, si staccano, sconfitti. Non sono forse fatti così
anche i sogni? Noi siamo fatti – diceva Shakespeare – della stoffa di cui sono fatti i
sogni. Ma qui, amici, non ci sono sogni consolatori. Rassegniamoci, ancora una volta, a
pensare.
DANIELA BRUSA
in studio, 2003
…Il
pinocchio-sirena
si
definisce,
la
lunga
barba
orecchiuta
si allunga.
Stupore
di
una
nascita
in
cui
la
vita
è
già
passato
ma
non
per
questo
la
morte
è
vicina,
legata
da
un
filo
confuso
di
virtualità
e
tecnologia
che
non
la
esclude
ma
la
conferma,
come ultima chiave di lettura di questa società.
La
donna
misteriosa
ha
perso
le
gambe,
mutante
lei
e
il
suo mistero.
Simboli
onirici,
Marco
potrebbe
essere
Orfeo
che
accoglie
il
delirio
di
questo
sodalizio
tra
colori
e
pennelli,
muti
nei
vasi
ma
musicisti
nelle
sue
mani,
che
ti
prendono
lo
sguardo
e
lo costringono a scrutare.
Macchie di colore prendono fuoco, come schiavi intrappolati sulla tela.
E’
un
progredire
di
sovrapposizioni,
distruzioni
e
modifiche:
un
conflitto
tra
attrazioni.
Tutto
è
intessuto
dal
dramma
che
ha
visto
dipendere
la
vita
dal
movimento
di
una
macchina.
La barba non si allunga più ma il pesce-tromba si è mosso.
Sulla tela un insieme di “materiali” iconografici entrano in un gioco chiuso, sospeso,
tra psicologico ed emozionale, tra brandelli di vita e chiodi che compongono non tanto
la raffigurazione ma l’idea di un mondo sempre in metamorfosi in cui la competizione
lo fa meno nostro e spontaneamente corrotto e corrosivo.
Senza prove di tutta questa necessità, e senza sapere cosa resterà di noi bestie:
“Grida, è tutta la tua presenza.”, per citare René Char.
Le ossa scricchiolano (è un topo?).
E’ per questa alienazione che sorride, per questa storia che cambia nome agli stessi
conflitti?
Mi viene in mente Ghassan Kanafani, palestinese : ”…d’un tratto Said ebbe la strana
sensazione di assistere a un dramma minuziosamente preparato in anticipo…”. Ah! La
lucida fede degli uomini travolti.
C’è uno sguardo dentro le figure di Marco…è difficile guardare e non sentirsi osservati,
si diventa coscienti che tutto cambierà volto e nome.
Dio non esiste, non è ne’ bianco ne’ morto. Non è lui il chiodo che tiene unita la carne
al tubo. Vedere come il mondo è stato reinventato, scoordinato da ogni altro essere,
niente è più a misura d’uomo. E’ una componente di questa strategia. Un gioco in cui
la posta non è essenziale ma è diventata pane e anima.
Viti, ferro e acciaio, pelle umana, la barba che per quanto si tagli continua a
crescere.
Sorgono gli stessi dubbi di ogni guerra ancestrale: chi ha cominciato? Chi ha il volto di
chi ha perduto e perché chi ha la divisa di un altro colore ha lo stesso sguardo?
Chi sta puntando il dito verso l’inferno?
Ma chi ha avvitato quelle ruote ai propri piedi?
Colonna sonora di musica etnica che viene da un altro mondo: probabilmente dal
prossimo.
Luca Ragagnin
Anatocrobazie, ovvero: il risveglio dell’acrobata
Impreciso, sotto
il
mondo, giace un agglomerato
informe.
Detriti una volta compatti, una volta ben pettinati.
Detriti nell'anarchia del paesaggio. I pensieri devono
essere certamente già sepolti. Hanno finito certamente il loro compito, che era
quello di lavare
il
corpo, purificarlo per far sì che si potesse ingravidare della
successiva valanga.
Le sporgenze del materiale allora è come se dessero
di gomito alle sporgenze del materiale vicino, non c'è
altro da fare che ricominciare.
Sotto, molto più in basso dei pensieri sepolti, la
comunità dà inizio alla lettura delle proprie regole.
Nulla impedisce che ciò sia già avvenuto. La
superficie sempre dovrebbe opporsi, i sismografi a
volte non si spiegano il perchè.
Nello spessore dei pensieri sepolti capita ogni tanto la
caduta di un sussulto, senza che il mondo ne sappia
nulla. Le irregolarità del materiale sono assopite, non
si svegliano nello smottamento.
L'estraneo assume sembianze di un buco nella pancia,
di un cavo orbitale,
di una bandiera, di un mitragliatore di ombre, di un
mortifero pinocchio, di un animale disorientato che scappa.
L'estraneo produce catastrofi molto spesso irrimediabili.
E dove non ce n'è motivo, un formicolio che spacca i palpiti comunque.
L'agglomerato informe sonnecchia.
Dentro i suoi pensieri sepolti si sveglia l'acrobata.
Fai conto che l'agglomerato sia meteorite di memoria, un'ala precipitata,
soltanto una parte del corpo.
I suoi minuscoli movimenti sono agonia sulla terra.
C'è un collare tra le cose che esistono, ma prima che l'acrobata l'abbia trovato
un nuovo buco nella pancia verrà aperto. Una nuova bandiera con dentro un
altro cavo orbitale sventolerà per segnalare l'ingresso.
Ci sono bolle trasparenti che spezzano ogni tanto la regolarità dei pensieri
sepolti.
L'acrobata ci entra, cadendo, come uno scarabeo nella resina.
L'agglomerato informe ride, perchè c'è ancora posto.
Per tutti noi.
Monica Perosino
recensione alla mostra “Anatocrobazie”, Torino 2000
" ....il filo conduttore della mostra, l'acrobata, è già di per
sé emblematico: aggrappato ad un disegno preciso e a una
risoluzione formale anatomicamente definita, l'acrobata ci
ricorda dell'ineffabile inquietudine dell'esistenza, dei delicati
equilibri del presente e della forte ambiguità della vita
stessa. Come in un racconto, gli straordinari lavori di
Seveso ci seducono dapprima dandoci la serena illusione di
trovarci in un mondo conosciuto, stabile e tranquillo
evocato dalla sicurezza impostativa della figura, per poi,
quasi impercettibilmente, condurci verso una dimensione
più profonda ed oscura. Volti, mani e corpi vanno man
mano scomponendosi e ogni dato riconoscibile scompare
per divenire astratto o materializzarsi in oggetti, parti di
macchine e frammenti di utensili domestici, come se le
tessere visionarie di cui si compone l'immagine
provenissero dalla beffarda
esplosione di un ipermercato. La
descrizione anatomica dei corpi,
quindi, se da un lato lusinga la
nostra percezione estetica e ci illude
di poter controllare e dominare la
natura e trattenerne gli equilibri,
dall'altro, scomponendosi e
trasformandosi in un flusso dinamico
di elementi eterogenei tra di loro,
sbilancia lo sguardo sulla vertigine di
uno spazio interno, il nostro
esistenziale, in una dimensione in cui
il segno è metafora, il particolare diviene simbolo
dell'universale e la rappresentazione pittorica diaframma
tra il reale e l'immaginario. Anche l'utilizzo di una tecnica
mista, in cui il tratto del disegno si fonde e si confonde con
inserti di colore, ha come effetto grafico un senso
d'ambivalenza ed indeterminazione dell'immagine.
Vi è, dunque, nei lavori di Seveso, un continuo passaggio
dal formale all'irrazionale, dal fisico al metafisico e, al
tempo stesso, una tensione inversa, che comprende le
pulsioni ed i pensieri entro una cornice evocata dai continui
riferimenti alle inquietudini del presente e alla
consapevolezza razionale della quotidianità. L'abilità
dell'acrobata sta proprio nell'oscillare, senza mai cadere, tra
una e l’altra dimensione.
Renato Valerio
dalla presentazione alla Galleria Armanti, Varese 2000
“… Ecco, nell'attuale fase del lavoro di Marco, è la riflessione
sul grande tema dei valori esistenziali che prevale; una
esigenza che in lui si è fatta sempre più pressante, più
analitica, più forte e puntuale.
L'indagine visiva in tale direzione si avvale oggi di un carattere
segnico ancora più nitido e incisivo, sia nel senso formale
compositivo che di significazione; sono immagini che si pronunciano sempre
con un gesto rigorosamente misurato e calibrato nei ritmi e che trasmettono
un componimento che tocca ora vertici di feroce realismo, ora di struggente e
amara poesia - caratterialità queste - che mutano il concetto statico di mera
"esecuzione-riproduzione oggettiva", perchè, questi componimenti segnici
espressi con un tormentato groviglio di
multiformi intersecazioni lessicali piene di vita,
oltre che significare, hanno il potere di
catturare l'attenzione e di imprimere nel
fruitore, una inquietudine visiva che lo
contringe alla riflessione sui contenuti espressi
nell'opera, e non alla sua osservazione passiva
(ed è certamente questo, uno dei meriti di
grande comunicatore di Seveso).
Questo suo saper scuotere il fruitore, indica
indubbiamente che il suo messaggio raggiunge
le coscienze; è un messaggio che corre e si
sostiene sul filo di una mnemesi storica
oggettiva e che si pronuncia in modo
trascendentale e contiguo, tra un recente
passato e la nostra quotidianità. In sostanza,
se fino a tutt'oggi, nel gesto e nell'esperienza
creativa di Marco, si potevano leggere solo in
prevalenza i dati preminenti di una indubbia
valenza tecnica e di una lucida visione e
coscienza sui temi fondamentali esistenziali
(cosa assolutamente encomiabile) ora tutta questa esperienza si rafforza
perchè è maturata e si è ulteriormente arricchita, di un humus più umano, di
una verità meno esteriorizzante e più penetrante, autenticamente più vicina e
partecipe, ai destini e al vivere problematici dell'uomo contemporaneo.
Questo attuale orientamento nel lavoro artistico di Seveso, non contempla più
solo una azione di "osservazione esterna" oggettivante delle cose e della vita,
ma si indirizza e mira in profondità, più nel di dentro dei problemi della vita
delle cose e dell'uomo. L'artista esprime così con la vita delle forme, il
significato più alto di questo suo universo visibile e sensibile. Un cosmo di
forme e di cose non più viste, percepite ed intese come traduzioni simboliche
fine a se stesse, ma viceversa, come elementi vividi e presenti in modo
partecipativo anche di un proprio vissuto, come affermazione del proprio
"essere" proprio all'interno dell'agire in questa realtà fenomenica - e con le
quali - l'artista intensifica il suo dialogo e interagisce quotidianamente.
Insomma, Marco Seveso, ha imboccato una nuova via, quella che si dispiega
su di un tracciato dove prevale una presa di coscienza più consapevole sia delle
cose, che della storia dell'uomo. E' una sorta di rivisitazione anche
dell'esercizio del ricordo, nel senso che, tutte le forze che interagiscono in
modo coinvolgente nel determinare i risultati e gli effetti di questo suo
poetizzare, in un certo senso, ci obbligano a riflettere sui momenti storici-
esistenziali sia dell'ieri che dell'oggi, divenendo un dichiarato invito per far
"crescere la propria entità", proprio in questa qualità di mondo, che è ormai
divenuto sordo al richiamo dei valori.
In questo altalenarsi di proposte e di riflessioni visive, Marco è riuscito forse a
trovare il grimaldello che apre le porte verso una nuova forma di lettura delle
contingenze sociali e umane contemporanee. …”
Ivana Mulatero
presentazione per la mostra”Alle radici della Democrazia-presenze d’arte 2”
Consiglio Regionale del Piemonte, 2010
Gli ambienti di formazione in cui Marco Seveso awia il proprio
apprendistato pittorico e grafico sono essenzialmente il contesto
artistico torinese della metà degli anni Sessanta, dove frequenta il
Liceo Artistico e studia il disegno con Chessa e Saroni e la rivierasca
Albissola. Qui, in compagnia del fratello Giorgio, giornalista e critico
d'arte, e del critico Mario De Micheli, partecipa al clima fervido e
sperimentale della famosa località ligure, laboratorio sulle possibilità
espressiva dei materiali ceramici e non solo, in cui varie personalità
convergono a dare vita a una situazione ricca di fermenti, di idee e di
progetti. In quel periodo Seveso frequenta e allaccia legami di
amicizia con Ortega,Bonelli, Gioxe De Micheli, Bec e Tonglani, con uno
scambio fecondo tra ambiti culturali differenti, tra pittura, letteratura,
poesia, teatro e impegno sociale e politico. L'esordio espositivo awiene nel 1964 alla Galleria Il
Giorno di Milano con opere d'impronta realista. In seguito la ricerca s'indirizza verso un versante
di complicanza figurativa che riprende la tradizione antica, risale ad Arcimboldo e a Bosch, per
poi tornare a una narrazione allusivamente ironizzata di derivazione pop. L'impegno a tutto
campo nel mondo della comunicazione visiva introduce l'artista ad una particolare forma di
scambio tra la letteratura e l'immagine, quest'ultima non in funzione meramente didascalica e
illustrativa ma con una valenza autonoma che procede in parallelo alla forza immaginativa
sostenuta dalle parole. Nasce così una serie di lavori, a partire dalla fine degli anni Settanta, in
cui numerose tavole realizzate in pittura e in disegno affiancano i racconti di F. Albertazzi, di G.
Luzzi, di M. Corgnati, di L. Ragagnin e di R. Char. Di quest'ultimo, l'opera poetica "La fontana
narrativa" tradotta da Luzzi e con una nota introduttiva di M. Bonneval nel 2001, si segnala di
particolare consonanza con i modi e le caratteristiche stilistiche di Seveso che interviene con nove
componimenti pittorici ideati per l'occasione. Il poeta francese Char, interprete di una poetica
surrealista intercalata dall'esperienza partigiana durante la seconda
guerra mondiale, ha lasciato pagine in cui si condensano brevi e
fulminanti riflessioni sul senso della parola poetica come parola di
resistenza. "Troppo sicuri dei nostri mezzi non dovremmo denigrare
ma intuire il mondo, non brutalizzarlo né certificarlo, ma
dimostrargli che siamo attenti, e non sollecitarlo insidiosamente.
Custodiremmo all'interno una stella nana a margine del suo nido,
come un bambino della foresta nella circonferenza del suo rifugio
mentre i suoi genitori abbattono con l'ascia soltanto il legno
necessario ai loro bisogni. Uomini dai vecchi sguardi, vi preghiamo:
al va' e vieni del duro pendolo, lasciate fermentare. Senza troppa
acredine né scosse, senza troppo odio né troppo ideale. Mondo dagli
azzurri sguardi, eccoti lavato, mentre sogni l'awenire. E che
scintillanti orecchie!". In un certo qual modo lo sguardo verso il
mondo di Char si avvicina a quello del disegnatore e pittore Seveso,
che ne accoglie la potenza generativa, l'inquietudine, la tenerezza e lo sgomento, componenti
presenti nel dipinto Cosa rimiri mio bel partigiano ... , del 2010, opera che rimanda ad un celebre
canto che appartiene alla tradizione partigiana. La musica fa capolino anche in altre opere
dell'artista come Sarabanda, del 2009, il melomane e Sonata, del 2008, ma anche s'inserisce
come metafora del tempo, e la traccia musicale, al pari di quella poetica, diviene consustanziale
alla messa in forma di colori e forme nello spazio circoscritto della tela, immagine che si espande
negli occhi che "ascoltano" .
Mario De Micheli
Presentazione alla mostra “I segreti di uno studio”
Ho qui sotto gli occhi gli ultimi quadri che
Marco ha dipinto, dove riconosco la mano
rimasta fedele all'impronta dell'immagine.
Era appena un ragazzo quando l'ho
incontrato per la prima volta. Anch'egli é
come me di radice ligure, venuto su in
quel di Sanremo. Si pensi che trent'anni fa
ho presentato la sua prima mostra
personale a Milano. Ne é passato di tempo.
Eppure, guardando ora le sue opere,
m'accorgo, appunto, che le premesse dei
suoi inizi non sono per nulla mutate. C'é
stata soltanto una crescita su se stesso, una maturazione del
proprio mondo poetico, una presa di coscienza della propria verità: la strada tracciata
é la stessa.
Non si tratta, tuttavia, di una coerenza di principio, quindi di una coerenza astratta,
bensì di una coerenza che vive nella sostanza più intima della sua natura. Marco non
ha avuto bisogno di inventare soggetti o temi insoliti. Flaubert era convinto che non é
necessario mettersi a girare il mondo per conoscere la realtà. Basta scendere nel
proprio orto, diceva, piantarvi una sonda in profondità e ne zampilleranno fontane. E'
quello che ha fatto Marco, che senza allontanarsi dal proprio studio, meditando sugli
strumenti del proprio mestiere, sugli oggetti che ne ingombrano i tavoli e sulle
cianfrusaglie disseminate all'intorno, ne ha ricavato le suggestioni necessarie a far
scattare la molla della propria immaginazione.
Ecco, dunque, di che cosa sono fatti i suoi dipinti, adesso appesi alle pareti di questa
mostra. A guardarli é come leggere un diario segreto. Che cosa c'é nello studio di un
artista! Non solo pennelli e tubetti di colore, squadre e compassi, spatole e tenaglie,
vasi e vasetti, piatti e scodelle, ma conchiglie, gusci di lumache, aride pannocchie,
castagne e fiori appassiti ... Una sorta di universo minore, dove il pittore celebra ogni
giorno i propri riti creativi. Dare notizia di tutto ciò, di ogni accadimento che si compie
nel silenzio, alle prese coi problemi e coi dubbi che assalgono l'artista di fronte agli
interrogativi sulla propria esistenza, é quanto in questo momento particolare egli
sembra voler fare.
Forse si potrebbe leggere una simile scelta anche come un rifiuto della storia. E non é
che i motivi per un tale rifiuto, guardandoci intorno, davvero ci manchino.Ma chi,
seriamente, si sente di separare la vita privata di un artista dal flusso concitato della
storia? Non é forse che anche l'esilio, a cui é costretto un artista tra le mura del suo
studio, non sia ugualmente colpa di una storia perversa?
Ecco, sono queste le domande che aleggiano intorno alle ultime nature morte che
Marco ha dipinto: domande inquiete ch'egli rivolge a noi e a se stesso. E tuttavia sono
domande che, nella propria qualità, posseggono il valore di un esorcismo: é ciò che le
assolve col sigillo di una persuasione capace di mutare l'inquietudine nel segno sicuro
dell'espressione.
Galleria Ciovasso, Milano 1994
PINO MANTOVANI
per Marco Seveso
Si possono raccontare i lavori recenti di Marco Seveso? Si potevano
descrivere quelli di prima? Subito verrebbe da rispondere: no, per eccesso
di complessità.
Non è solo una questione quantitativa: se nelle nature morte e negli
ambienti erano "troppe" le cose, tanto da sembrare innumerevoli in uno
spazio "inadeguato"(non a caso lo studio, che è una dimensione
esistenziale); nei dipinti degli ultimi anni (cinque o sei), ma nei disegni da
sempre, diventano innumerevoli le relazioni, la complicanza e l'intrico
molteplice dei percorsi.
Questa volta non è solo una impressione, è un dato verificabile, anzi,
proprio l'esperienza della verifica è . sono tutti i racconti possibili. Insomma
ci troviamo di fronte ad un assurdo: tanto è difficile quasi impossibile
risolvere in descrizione/narrazione le opere, quanto la
descrizione/narrazione resta il fondamento, il carattere, la ragione
dell'immaginario di Marco Seveso, che infatti si autodefinisce un "inguaribile pittore narrativo".
L'autore stesso mi porge, non casualmente, l'edizione da lui illustrata nel 2001 de "La fontana
narrativa" di René Char, magistralmente tradotta dall'amico Giorgio Luzzi.
Nella nota introduttiva, Marc Bonneval chiarisce che l’interprete traduttore e l’interprete
figurativo sono mossi da una “complicità militante”, da “una volontà che gli epiteti poetico,
politico o artistico non bastano a definire”, in quanto – qui a parlare è lo stesso Char - “la poesia
è fra tutte le acque chiare quella che indugia meno al riflesso dei suoi ponti.[…]Mago
dell’insicurezza, il poeta non ha che soddisfazioni adottive".
Ciò vale per chiunque cerchi la poesia come speciale declinazione del linguaggio verbale
eventualmente trascritto, ma come “testimone insostituibile di una inquietudine”, ovvero
“desiderio che resta desiderio”. Senza pretesa di approdare ad una forma conclusiva, anzi
innescando ulteriore velocità nella concatenazione e nel rilancio delle immagini, di qualsiasi
sostanza siano fatte.
Si sa che questo è specialmente problematico nelle arti plastiche: che hanno
forte tentazione di presentare evidenze "certe" e per ciò stesso ottuse, nel
senso di prive di trasparenza, elasticità, agilità, mobilità; eppure un maestro
dell'evidenza, ancorato non per finta alla natura (ma non condizionato da una
natura finta) - dico Cézanne - e con lui altri tra i più profondi "naturalisti"- da
Monet a Odilon Redon – provarono che proprio la concretezza poteva essere
generatrice di catene di cose e di sensi. A patto che ragioni ideologiche più o
meno intelligenti, o ragioni formali più o meno condizionate dallo stile non
imponessero dittature esclusive e facessero attorno terra bruciata.
D’altra parte, si sa che le arti del mettere in figura, per scardinare l’ordine
chiuso dello spazio contenitore, presero a modello
la temporalità di altre arti e le loro differenti
articolazioni; ma anche si sa che alcuni maestri
della temporalità liberata non vollero rinunciare
alla rappresentazione, a volte riducendo la
componente descrittiva, a volte esagerando
l’aspetto plastico caratterizzante, a volte puntando sulla
metamorfosi in atto, senza per questo cadere nel confuso, o cedere
al vago o all’ambiguo.
In ogni caso, fu importante per tutti meditare sulla struttura del
significante, che nel figurare è il gesto che genera traccia , ovvero
la traccia viva del corpo. Il segno, nell'accezione comune del
termine, prima d'essere segno di altro, è infatti questo:
l'occupazione in tempo reale, istantaneo o esteso, del campo
d'azione (dove l'azione si sviluppa e si deposita in traccia).
Ciò spiega come lo stesso Marco Seveso (l'artista che fornisce
pretesto a queste considerazioni generali ma che è oggetto di
specifica analisi) abbia realizzato certi esiti, prima nel disegno e poi
nella pittura: non solo conservando il disegno come "non finito" nel
"finito" pittorico, ma anche maturando nella pittura una varietà di modi capaci di registrare
(rappresentare) la complessità anche contraddittoria comunque aperta del corpo attivo. Se,
insomma, il disegno incrocia certe difficoltà e le risolve (se ci riesce) per sua propria indole; la
pittura, estesa tra natura e artificio, esige un filtro mentale e responsabilità di scelte.
Sono convinto che il coraggio di affrontare i problemi anche in arte serva più che aggirarli o
ignorarli. Marco Seveso – non sono il primo a notarlo – ha da una parte un forte attaccamento ai
dati, alla varietà multiforme e singolare dei corpi - questo gli viene da una formazione "classica"
e dalla tradizione "realistica"; dall'altra, essendo un disegnatore nato e avendo consumato
l'esperienza realista forse più sul versante esistenziale che su quello sociale, è indotto a
scatenare energie che inneschino processi senza soluzione nel gioco per così dire discontinuo
della pittura.
L'incontro – lo scontro - tra i due in un certo senso opposti, determina alcuni effetti che non
sono di compromesso: i dati coinvolti nel drammatico attrito, non raramente frammentandosi,
esplodendo addirittura, non perdono per questo evidenza, nemmeno nel rimescolamento
conflittuale che subiscono, anzi guadagnano una straordinaria forza evocativa, come capita a
tutto ciò che non viene subito assorbito in una pappa più o meno omogenea. Proprio la domanda:
che ci sta a fare questo, qui ed ora? esige una risposta forte o l'accettazione di una incoerenza, di
un assurdo presente irriducibile del mondo, di quello figurato come di quello cosiddetto reale.
Questa "incoerenza", non che essere un difetto, è parte essenziale dell'avventura che vive
chiunque, e in certo modo esemplarmente l'artista che attiva l’immagine e lo spettatore chiamato
a rilanciarla, attivamente. Entrambi accompagnati da alcune figure-guida, miti originari e attuali:
l’acrobata (acrobate mime parfait), la sfinge (custode dell’enigma), il vate con la grande barba
(che fluisce senza fine come il tempo e l’energia), il musicista o lo strumento (che conoscono il
ritmo e le sue eccezioni), la sirena (affascinante ingannatrice, subdolamente generosa nel
suggerire vie di fuga dove la saturazione sembra negarle), e così via. Sono, a pensarci, tutte
figure provocatorie, che inducono all’esperienza avventurosa del mondo, salvifiche solo in quanto
generatrici di curiosità e di sforzi resistenti.
Altre figure chiave stanno dalla parte del significante. Del disegno qualcosa s'è detto; ma invito a
considerare la scelta dei mezzi grafici, dei supporti e delle dimensioni. Qualcos'altro si dovrà dire
della materia e del colore, della materia cromatica, che, a partire dal gioco tra il "magro" della
grafite o del fusain e il "grasso" dell'olio, tra l'argento della mina e il cromatismo "leggero"
dell'acquerello o "greve" dell'olio, raggiunge la potenza parossistica dei grandi quadri. Che nulla
hanno di "naturale", proprio perché cercano una "verità" che ben poco ha a che fare con
l'illusione di una natura pacificante.
Umberto Capra
Presentazione alla mostra personale, Borgo Po e Decoratori ,2005
I
grandi
formati
ad
olio
della
recente
produzione
di
Marco
Seveso
sono
trafitti
da
lame
e
spigoli
di
oggetti
acuminati,
taglienti,
laceranti.
Forbici,
cavatappi,
tritacarne
e
bisturi
impropri;
costole,
membra,
cosce,
glutei,
seni,
clavicole
e
sterni.
Corpi,
meccanismi,
ingranaggi;
oggetti
e
anatomie
si
fendono,
si
ledono,
si
lacerano
con
doloroso
sarcasmo
e
si
camuffano
gli
uni
nelle
altre
in
proteiformi
anatomie
della
meccanica
e
ruotismi
dell'organico.
Strumenti
di
passione
lacerano
e
straziano:
un
conico
aculeo,
rosso
come
una
coquille
Saint-Jacques
e
pungente
come
una
puntina
da
disegno,
caricato
su
una molla, una balestra, pronto a scattare e a colpire.
Negli
acquerelli
e
nei
disegni
qui
esposti,
la
morbidezza
della
materia
stessa
sembra
avere
sottratto
gli
oggetti
da
taglio,
nascosto
i
punteruoli,
lasciando
le
carni
ferite,
le
membra
contorte
e
dolenti,
solo
apparentemente
morbide,
in
un
intreccio
più
astratto
e
meno
didascalico.
Ma
il
disegno
continua
a
criptare
sotto
il
velo
dell’acquerello
una
insopprimibile
urgenza.Il
sarcasmo
torna
irruente
quando
l’attualità
della
cronaca
richiama
ai
conflitti
insoluti,
irrompe
con
interventi
a
gamba
tesa,
scalcia
impudico
di
fronte
all’ipocrita
armatura
di
uno
chador
,
babbucce
appuntite
come
calzature
di
cavaliere
medievale;
una
lucida
empietà/impietà
che
strappa
figurine
atletiche
da
un
vaso
greco
per
buttarle
nella
révolte
delle
banlieues
parigine.Lo
sguardo
è
quello
di
uno
Hieronymus
Bosch
urbano
che,
dopo
avere
decantato
le
allucinate
metafore
apocalittiche,
rimane
a
contemplare
i
corpi
feriti,
residui
del
sabba
moralista.
Nel
rifiuto
di
ogni
romantica
autocommiserazione,
nel
disincanto
e
nella
lucidità
dello
sguardo
sta
forse
la
modernità
senza
prefissi
di
questi
lavori
di Marco.
Paolo Levi
Recensioni
LA REPUBBLICA 3/1998
Chiude il prossimo 4 aprile una esposizione di «Disegni urbani e inurbani» , così recita il titolo
della manifestazione, presentata da Giorgio Luzzi, che riporta alla ribalta il lavoro di un pittore
torinese che raramente è presente nelle esposizioni della nostra città. La Libreria Fontana,
dobbiamo dargliene atto, con questa serie di riproposte compie un necessario atto di
informazione culturale. Nel caso di Marco Seveso, inoltre e soprattutto, offre un contributo di
giustizia.
Negli anni '70, appena ventenne,egli dimostrò che si poteva andare altre il messaggio del
realismo sociale (vedi il conservatorismo di Renato Guttuso), per approdare ai lidi inquieti del
realismo esistenziale. Ora la mostra di splendidi disegni dimostra la sapienza di questo artista
che sa "scrivere" con matita rapida quanto ossessiva l'orrido umano. Il corpo è luce, ombra,
segno, dolore, crudeltà. La città senza amore è come una carcassa sgangherata.
LA REPUBBLICA 5/2000
Sino all'otto di giugno la personale di Marco Seveso: solo disegni, alcuni colorati, altri in bianco
e nero. Sono lavori di una grande inquietudine e sapienza espressiva di un artista che, in
questi anni, pur rimanendo nell'ambito strettamente figurativo, è poco per volta scivolato da
un'espressività realista a quella visionaria. I lavori recenti, su carta di qualsiasi dimensione,
sono pieni o, meglio, strapieni di figure, di teste, di mani, di corpi, di particolari anatomici che
narrano qualcosa di volutamente orrendo.
Fatto curioso è che l'artista negli anni dell'impegno sociale era figurativamente asettico, ora,
nella sua angoscia ben trasmessa è visionariamente espressionista.
Alcuni lavori ricordano l'ultimo Giuseppe Guerreschi o gli artisti della neofigurazione degli anni
Settanta.
Egli ha voluto dare un titolo a questa serie di cicli, come “Gli acrobati” e “I dispiaceri di Rodin”,
per aumentare la cripticità del messaggio.
LA REPUBBLICA 4/2001
Un pittore torinese, Marco Seveso, negli anni Settanta realista socialista (ma quanto mai
intimista), espone ora le sue emblematiche e nel contempo centrate, surreali illustrazioni,
ma tutt'altro che illustrative, per
La fontana narrativa
di René Char. Sobrio volume di poesie,
con taglio editoriale ad album, del riservato poeta surrealista amico di Breton e di Eluard,
che mai si lasciò coinvolgere dalle polemiche del gruppo. Le infittite immagini oniriche sono
tradotte con attenta pazienza dal poeta Giorgio Luzzi. L'interpretazione visiva che fa Marco
Seveso dei versi di René Char, approda con autonomia alla loro sin
golarità
e ne sfida
l'oscurità. Seveso, in un impegno tutt'altro che facile, sa superare gli ostacoli ed evita le
eccessive esclamazioni espressive. Utilizza tecniche miste su carta dove la capacità del segno
fitto e continuo si completa con una curiosa malinconia del colore. Ad ogni titolo di poesia,
egli risponde con una figuratività dalla costante interruzione del “ senso”, atteggiamento che
fu tipico dei surrealisti gestuali, come André Masson ed Hans Bellmer.
Roberto Tassi
presentazione della personale alla galleria Schreiber, Brescia 1972
Ci sono molti modi oggi di affrontare una lotta per l'uomo, per
i valori fondamentali dell'uomo, che tende a farsi sempre più
estrema, quindi sempre più chiara nelle sue formulazioni, nei suoi
dibattiti, nelle sue immagini; per l'uomo che è avvilito da ogni sorta
di destituzioni, trafitto dalle forze di una società che vive unicamente
su un groviglio di rapporti sbagliati, torbidi e privi di consistenza
naturale, di umana verità e giustificazione. Un modo è anche quello
degli artisti che sono coscienti di questa lotta in ogni momento del
loro lavoro: molti giovani artisti che oggi in Italia (e non solo in Italia) hanno iniziato
un discorso nuovamente realistico, per immagini oggettive, concrete, di un
materialismo che molto spesso è arricchito dai simboli, gli spessori e la complessità
del reale.
Seveso vive e lavora per istintiva elezione in questa zona: ci
descrive l'uomo e i suoi oggetti in un momento in cui quelle condizioni creano tra di
loro un conflitto. L'uomo di Seveso è sopraffatto dalla disperazione; ha perso la
possibilità di rapporti armonici con l'ambiente e con le cose; circondato dai pochi,
squallidi elementi, metallici o marmorei, di uno spazio anonimo, vive in esso, riverso
sul suolo, non un sonno, ma uno svenimento, uno svuotamento di vita e vi trova solo
i gesti che sfogano sugli oggetti il suo senso di impotenza, i «gesti di rabbia» spiega il
pittore.
Seveso rifugge nella sua opera da ogni tipo di compiacimento pittorico, da
ricchezze, ridondanze, illusioni tonali o rallentamenti lirici; dà solo le strutture ridotte,
i frammenti necessari, l'essenza chiaramente allusiva di poche cose, di qualche brano
di realtà, che in sé contiene già tutta la miseria e il dolore dell'esistenza in cui sono
mancati o degenerati i rapporti. In alcune opere che, tra tutte, mi sembrano le più
tese e allucinate, appaiono solo gli oggetti che hanno subito quella forza rabbiosa, i
poveri oggetti stravolti, fratturati, riversi; essi sono i segni di un'esistenza soffocata,
ridotta alla sua potenzialità negativa: il flauto infranto, il foglio di musica
accartocciato, la sedia caduta, nella loro funzione simbolica e nella evidenza della loro
oggettività, appaiono quasi come segnali misteriosi, ma suscitano poi una pietosa e
dolente attenzione.
In questo rapporto tra resa realistica e sottile vertigine sta la forza di immagini, e
di un mondo, che rivelano in Seveso un'autentica vocazione, una reale rabbia e
volontà di lotta e un originale contatto con la realtà.
Marco
Seveso
segue
un
percorso
complesso
da
collegare
e
difficile
da
collocare
in
uno
specifico
contesto
artistico.
L’astrazione
concreta
fatta
di
immagini
reali,
che
non
appartengono
al
piano
percettivo,
che
non
può
essere
pertanto
puro
fenomeno
mentale,
nel
momento
in
cui
s’incarna
nello
spazio
pittorico,
da
una
parte
diventa
allegoria
e
simbolismo,
e
quindi
concetto,
dall’altra
oggetto,
elemento,
sostanza
e
quindi
concretezza.
Neppure
il
titolo
delle
opere
riesce
a
condurre
verso
un’interpretazione
univoca.
E’
come
viaggiare
con
la
mente
ed
il
corpo
su
pianeti
diversi
che
si
sovrappongono
restando,
nel
contempo,
sospesi
e
radicati.
Anche
il
racconto
si
fa
intrigante
nel
procedimento
di
straordinario
effetto
visivo.
Dopo
un
primo
impatto,
in
cui
sembrerebbe
ideato
per
illustrare
un
libro
per
ragazzi
o
per
riprendere
alcune
scene
che
potrebbero
rimandare
alla
tecnica
dell’entrelacement
(intreccio,
groviglio),
utilizzata
da
Ariosto
per
mantenere
vivo
l’interesse
sul
proseguo
delle
avventure
di
Orlando,
ad
un’analisi
più
attenta,
conduce
verso
le
surreali
ed
inquietanti scoperte di stampo kafkiano.
Ad
esempio,
il
pesce
tromba,
come
afferma
l’autore
“allegoria
subacquea
del
mito
del
successo”,
è
braccato
da
tanti
ostacoli,
strumenti
di
tortura
che
minacciano
la
sua
stessa
incolumità
ed
anche
quando
incontra
la
fanciulla
dal
volto
angelico,
scopre
un
corpo
deforme
che
non
rispecchia
la
possibile
soddisfazione
di
alcun
desiderio.
L’insieme
diviene
metafora
dell’inganno
costante
tra
l’essere
e
l’apparire,
diventa
espressione
delle
insidie
ostili,
che
bloccano
le
nostre
ambizioni
più
naturali.
Se
ne
deduce
che
ogni
possibile
interpretazione
di
un
dato
figurativo
è
concetto
e
viceversa.
Nell’emblematica
successione,
i
personaggi,
manovrati
da
un
intelligente
regista,
si
muovono
come
su
un
palcoscenico
di
tela,
dove
interpretano
oniriche
scene
rendendole
marcatamente
reali.
Anche
il
tempo
non
è
cronologico,
anzi
è
flusso
di
luce
cromatica
intermittenti
tra
passato
e
futuro
in
grado
di
dilatarsi
all’infinito.
Ne
deriva,
quindi,
per
una
sorta
di
processo
analogico,
che
qualunque
indicazione
di
lettura
possa
esprimere
anche
il
suo
opposto,
un
po’
come
la
vita
che
si
alterna
alla
morte
o
il
dolore
che
incontra
la
felicità
nell’attimo
transitorio
che
solo
l’artista
sembra
catturare, senza poter spiegare.
Giuseppina De Maria
presentazione alla Galleria Armanti, 2011